Quando l’orafo Benedetto Dei nel 1470 nelle sue Memorie enumera le botteghe e le bellezze della città di Firenze, un solo artista compare due volte, sia fra i pittori, sia fra gli scultori “i quali anno fatto le gra(n) cose che si veggono nella città di Firenze et etiandio in più e più parte della ricca e degnia Toscana le quali non si possono negare”: Andrea di Michele, detto del Verrocchio, dal nome dell’orafo Francesco di Luca del Verrocchio con cui si era formato verso il 1455, o “Andrea della palla”, per l’ardita impresa della palla in rame dorato issata al vertice della cupola del Brunelleschi.
Ed egli soggiunge, “nota che i detti sono stati i maestri d’Italia all’età di Bened(ett)o Dei l’anno 1470”, sottintendendo l’orgoglio per quanto si faceva in una Firenze che era il centro del mondo, come Roma nel 1510 o Parigi nel 1910. Nessun artista prima di Michelangelo è stato organicamente scultore e pittore al contempo come il Verrocchio. Eppure la sua grandezza anche come pittore non è universalmente riconosciuta, non è nemmeno chiaro cosa abbia effettivamente dipinto. Le sue due sole opere pubbliche, il Battesimo di San Salvi (ora agli Uffizi) e la Madonna di Piazza di Pistoia, sono in gran parte spurie, l’una iniziata con l’aiuto di collaboratori e finita da Leonardo, l’altra commissionata nel 1475, ma dipinta dieci anni più tardi dal ben più modesto Lorenzo di Credi, cui lasciò in eredità i beni della sua bottega. Negli anni settanta un’intera galassia di maestri, scultori ma specialmente pittori, imitarono il suo linguaggio, innervato di una tensione formale sconvolgente, capace di condensare la vita e il movimento in immagini esemplari, di distillarle secondo un’eleganza suprema e cristallina. Senza il suo magistero non sarebbero stati né Leonardo, né Perugino, né Ghirlandaio, né tanti altri, da Bartolomeo della Gatta a Piermatteo d’Amelia, con ripercussioni importanti dall’Umbria a Roma, dall’Abruzzo a mezza Italia.
La sua bottega fu una vera fucina di innovazioni, una sorta di accademia ante litteram. Lì si elaborò la risposta più alta alla pittura fiamminga, componendo il virtuosismo della resa di infiniti dettagli ottici in un’intuizione altrimenti grandiosa e sintetica della realtà. Lì la figura umana divenne nucleo generatore di un’inedita teatralizzazione monumentale, vero e proprio padrone dello spazio, con un’operazione possibile nella pittura solo per un artista che era al contempo l’unico scultore in grado di concepire, come nuovo Donatello, l’interazione costante con lo spazio circostante e con lo spettatore, a 360 gradi. Lì nacque il proto classicismo: nella respirante grandiosità dei corpi panneggiati, immersi nell’atmosfera, stagliati contro il cielo e contro paesaggi vasti e verdissimi, nella studiata dolcezza degli sguardi dei due angeli nella Madonna di Volterra (Londra, National Gallery) è già implicito tutto quanto Perugino dirà nel resto della sua vita; nella tensione repressa di quelle figure è latente l’inquietudine e la complessità psicologica che Leonardo libererà, smagliando e sforzando la lucente acribia che il maestro gli aveva insegnato, tradendolo nell’intimo.